Evelina, la sua storia di donna che incontra la violenza.
- Erano i tempi dell’innamoramento.
- - Devi lasciarlo… dai, devi lasciarlo.
- Evelina non poté far a meno di pensare a Vanessa
- "Non volevo…". Quante volte aveva sentito quella frase.
- Su consiglio di Consuelo e di Assunta, Evelina aveva accompagnato Robertino dalla psicologa.
Erano i tempi dell’innamoramento.
Erano i tempi dell’innamoramento. C’erano stati quei tempi. La gita scolastica era un sogno da far diventare realtà con lacrime e strilli. E io ero abilissima in questo. Ero ormai al liceo, primo anno. E anche se la mia volontà in famiglia non contava molto, io avevo i miei espedienti che funzionavano. E, infatti, andai in gita. Non sapevano nulla a casa mia del filarino, per fortuna, altrimenti niente gita. I segreti servono, e come! La mattina si partì presto. La vicepreside ci aveva raccolti tutti come pecorelle sul marciapiede di piazza Umberto I. Il filarino mi stava attaccato come se ci fosse stato un ago e un filo a cucirci. Ci stava, me lo aspettavo, quell’emozione così diffusa che dalla testa raggiungeva un posticino segreto in agitazione. Io e Evo avevamo progettato quella gita e ora che finalmente c’eravamo non ci saremmo staccati per nessun motivo al mondo. Ma si sa, i prof sono fatti apposta per rompere, con quella storia di femmine e femmine e maschi e maschi.
- Evelina, Evelina, siediti vicino a me che mi racconti.
Andreina era una curiosa di sesso e ci stava dietro a me ed Evo come un’esploratrice ossessionata dalla preda.
- Ma cosa vuoi che ti dica, qui non succede nulla. Tranquilla, se ci sono novità ti racconto.
Pazienza, eravamo lontani io e Evo, ma c’erano comunque gli occhi a tenerci vicini. Mi disturbava in questo dialogo a distanza l’insistenza di Andreina, che continuava a interrogarmi su come si bacia e come … Non è che avessi molto da raccontare ed entrambi i dialoghi finirono con un colpo di sonno.
La gita a Paestum si stava esaurendo tra qualche toccamento e tanti sorrisi. Evo era davvero bravo. Ogni colonna era stata messa lì apposta per fare da schermo ai nostri baci e alle carezze sempre più audaci. Aveva delle mani bellissime Evo, e sapeva dove metterle con una rapidità che alla fine mi stupiva ogni volta. La gita si stava esaurendo tra un’emozione e l’altra. Eravamo giù sulla via del ritorno, quando Giulia si sentì male e il pullman fu costretto a fermarsi al primo autogrill. Sentii la mano di Evo che mi trascinava via. In un secondo fummo nel bagno dei maschi. “Una fuga d’amore nel cesso!”. Feci appena a tempo a pensarlo, che una stilettata mi colpì al basso ventre, rapida, violenta.
- Ora sei mia, chiaro?
Sì, una cosa sua.
Ogni volta che l’infermiera mi toglieva il sangue rappreso dell’ultima caduta dalle scale, questo ricordo riaffiorava come il trailer di un film che sembrava non dovesse mai avere finire.
- Devi lasciarlo… dai, devi lasciarlo.
- Devi lasciarlo… dai, devi lasciarlo.
- E’ facile secondo te? 15 anni di matrimonio e tre figli ancora piccoli …
- Ma vuoi crescerli in mezzo alle botte? Aspettare che diventino violenti come il padre o vittime come te?
La pandemia l’aveva ancora più chiusa nel suo mondo di donna maltrattata, violentata, sfruttata. Quei fuggevoli attimi di conversazione segreta con Consuelo erano l’unica oasi in un deserto di sentimenti. Eppure … lui sapeva come farla tornare nella sua rete e lasciarla lì nel limbo del me-ne-vado-non-me-ne-vado, mentre ora si curava da sola le ferite del corpo e dell’anima. Inavvicinabile il pronto soccorso per le sue ferite da niente di fronte alla tragedia nazionale e, soprattutto, a rischio che le venisse una buona volta la tentazione della denuncia. I tubetti di voltaren svuotati, il foille pronto per le scottature, inevitabili quando la prendeva in cucina, senza aspettare che si allontanasse dai fornelli … mentre rideva … di lei che non sopportava il dolore, diceva.
In un cassetto si accumulavano i suoi dialoghi immaginari, meglio i suoi soliloqui, lei sapeva che se lui li avesse trovati si sarebbe avvicinato il momento della soluzione finale. E li lasciava anche visibili, a volte, come una forma di suicidio per intermediario. Ma lui, Evo, Everardo Fuccillo, il consulente informatico che tutti volevano come esperto, non li avrebbe mai visti, certo com’era di possederla da quel giorno ormai lontano che si ripeteva con la stessa violenza ogni volta che la prendeva. Ovunque. In cucina, nel bagno, nel ripostiglio, nell’ingresso, la prendeva, lei la bambola di pezza, lui la bestia in giacca e cravatta, che mentre godeva attenuava i suoi grugniti di bestia perché potesse continuare senza che si svelasse il segreto così ben custodito dalla vittima. Quando poi, svuotata la voglia, la carezzava dolce come un bambino, la baciava piano piano come una bambina, quello era il momento più tremendo. Come poteva provare piacere dopo quegli assalti devastanti, dopo lo stupro, e desiderare che si ripetessero quelle carezze? Era la sua condanna? La sua colpa? La ragione del suo silenzio? I bambini, quando lui li chiamava dopo averla posseduta nel letto grande, saltavano su felici, felici del permesso ricevuto, mentre lei diventava piccola piccola come loro per nascondere il dolore e il piacere e tornare innocente e ricominciare.
Finito il lockdown, il ritorno a scuola aveva posto fine ai soliloqui. Consuelo, l’amica senza paura, la sosteneva, la invitava a ragionare, le parlava della casa per donne maltrattate, di Carla, che trovava le parole per leggersi dentro e decidere. Evelina, però, avrebbe voluto che le parole giuste venissero da sua madre, le sarebbe bastato, per decidere, che almeno una volta le avesse detto solo “Sono con te!”. Sua madre quelle parole non le avrebbe mai dette. La fede, le tradizioni, la gente?
- Ma’, devo dirti una cosa … Evo …
- Ho capito, Eveli’, siamo alle solite, vedi che devi fare … hai tre figli … non te lo scordare. Hai tre figli e dei doveri. Sei un’insegnante. Fai come vuoi. Resisti o denunci. E’ semplice.
- Non è semplice.
- Vuoi che lo faccia io? Ma, bada bene, devi essere tu a volerlo. Non mi mettere in mezzo, che poi neghi. Io ti conosco, sei capace di negare al momento giusto. Evo…Evo... Fammi capire, eh!
- Ma li vedi i segni o no? Ma perché quando ti ho raccontato di quella prima volta di merda, non mi hai detto di lasciarlo, invece di chiamare mio padre e dirgli di parlare con Evo, che facesse il suo dovere.
- E lo sta facendo, ma’…
- Hai ragione, Eveli’, Allora potevo fare qualcosa, dovevo fare qualcosa … ma … adesso … è tardi. Adesso devi decidere tu. Hai tre figli, Eveli’.
Ormai la violenza fisica non le faceva neppure più paura, ogni botta era parte di un gioco, perverso ma un gioco, doveva godere o, meglio, fingere di godere, altrimenti erano botte, doveva fare quello che le era ordinato senza tentennare, altrimenti erano botte, botte sul pube, lì dove non sarebbero arrivati gli occhi di nessuno. Ma botte vere. Quando doveva picchiarla sulla bocca … questo lo tormentava, lì si vedeva. Ma una scusa pronta c’era sempre. E la concertavano insieme, perfino. E se il colpo arrivava fino a farle un occhio nero, meglio. La scusa era più plausibile.
Dio mio! Come poteva vivere in questa perversione, come poteva lei, l’insegnate stimata, saggia, che sosteneva i ragazzi in difficoltà, che sosteneva i genitori in difficoltà, cui si ricorreva per avere consiglio. Come poteva sostenere tutto questo lei, con la sua intelligenza, la sua cultura. Ma queste erano le parole di Consuelo. Lei ormai era entrambe le Eveline. Forse per sempre avrebbe avuto spazio per entrambe, le metteva in dialogo, come in uno specchio l’una guardava l’altra, la saggia e la vittima, si parlavano e si incoraggiavano, si parlavano e si combattevano, a scuola era l’una, in società era l’una, nel privato era l’altra, una schizofrenia che vedeva convivere la follia con l’equilibrio, il dominio di sé in presenza degli estranei, la forza in presenza dei figli, l’indifferenza nella sua famiglia, con le imprecazioni sommesse sulla porta di casa, con la debolezza nel letto, con il pianto sul divano, con i lamenti soffocati nel bagno …
Evo quel giorno aveva deciso di tornare a casa prima del previsto, gli era mancato un appuntamento per un lavoro importante e la rabbia era diventata desiderio di rifarsi su di lei. Era entrato di soppiatto, perché il progetto era di prenderla da dietro di sorpresa, ma era stata Evelina a prendere di sorpresa lui, perché stava scrivendo uno dei suoi tanti dialoghi-monologhi, ed era forse quello decisivo, quello che, in un modo o nell’altro, avrebbe messo la parola fine a tutto. Il foglio, benché da lei accartocciato in fretta, era passato, inevitabilmente, prima negli occhi poi nelle mani di Evo.
Evelina non poté far a meno di pensare a Vanessa
Evelina non poté far a meno di pensare a Vanessa, mentre in pronto soccorso le stavano diagnosticando 2 vertebre rotte e un grosso ematoma temporale. Vanessa le ricordava tanto una bambina di sua conoscenza, quella Evelina travolta dai litigi dei genitori, quell’Evelina con le orecchie tappate e gli occhi sbarrati. Si chiese come avesse fatto lei a non farsi venire quell’idea, quando non ne poteva più e vedeva a rischio la vita stessa di sua madre e sua. Ed era sopravvissuta a tutto quel disastro per ricacciarsi in un altro? Che senso aveva tutto questo. Sarebbe stato davvero meglio non essere nata o farla finita, allora, e perché non ora? Davanti le si apriva l’abisso del decimo piano, del ponte dei suicidi, del mare infinito, del sonno provocato dagli antidolorifici … ma I figli? Poteva lasciarli a quel demone di Evo? Un punto fermo doveva metterlo e per loro quel punto fermo era telefonare al centro antiviolenza, ora, in quel momento, prima che l’abitudine non prendesse il sopravvento sulla forza di volontà. Cercò dentro si sé le ragioni per farlo ora, o mai più. Le venne come una visione Vanessa che sceglieva il vuoto per liberarsi, chissà da cosa, chissà da quale altro vuoto E per Vanessa, anche, si doveva farlo anche per lei. Vanessa aveva bisogno di lei, qualunque fosse stato il motivo del suo gesto, Vanessa aveva bisogno di lei, e lei voleva esserci.
Chiamò l’infermiera.
- Mi prende la borsa, per piacere?
- Che succede? La vedo molto alterata, ha bisogno di qualcosa? Lei non può muoversi…
- Mi prenda la borsa per piacere … guardi dentro, cerchi nel buco nella fodera … c’è un numero … salvavita. Lo faccia, per piacere, mi presta il suo cellulare? L’ho … dimenticato a casa. La prego … o ora o poi sarà troppo tardi …
- Capisco …
Nella quiete della casa famiglia tutto le era sembrato lontano quasi irreale, se non fosse stato per quelle fitte acute al petto che la facevano stare così male, benché fossero passati mesi ormai da quel giorno. Il giorno della seconda nascita, lo chiamava Evelina, perché era così. Era rinata. Anche le figlie erano rinate. Tutto il mondo era rinato. Poi la piccola casa in centro paese, a Melata, dove lui non avrebbe mai potuto raggiungerla, perché si sentiva protetta dagli occhi dei suoi vicini. Le volevano bene, alla prof. E lo dimostravano con mille attenzioni. Se l’incubo non era finito, né mai sarebbe finito dentro, almeno era tenuto lontano dalla legge e dalle amiche del centro che la sostenevano e da tante altre persone a lei vicine. Questo aveva detto a Vanessa, quando era andata a trovarla. C’è sempre una via d’uscita. C’è sempre qualcuno che aiuta. Non guardare nell’abisso, guarda davanti a te e cerca un abbraccio.
"Non volevo…". Quante volte aveva sentito quella frase.
Quando Robertino le diede uno schiaffo, Evelina sentì cadersi il modo addosso. Si sedette come inebetita, un velo di lacrime le coprì gli occhi. Robertino vedendola piangere le corse tra le braccia.
- Mamma. no, scusa non volevo…
Non volevo… quante volte aveva sentito quella frase, una frase tradimento, da sconfessare alla prima occasione. No, non poteva essere vero. Eppur e la guancia le bruciava e le lacrime scendevano a fiumi. Evelina stentava a riprendersi. Non poteva essere vero. Non poteva ricominciare tutto daccapo. Una storia che non sarebbe mai finita, dunque. Generazioni segnate dalla violenza? Generazioni cui nulla avevano insegnato le lacrime, le umiliazioni, le battaglie per uscirne?
Si alzò a fatica e a fatica abbracciò suo figlio. Come avrebbe fatto a insegnargli che esiste un modo tenero di approccio alla madre, alle sorelle. A volte negli occhi di bambino aveva visto accendersi un fuoco, come di chi ha dentro un braciere acceso di rabbia e di rancore. A nulla servivano le sue carezze? era più forte la consuetudine a vedere la madre picchiata, sottomettersi e resistere al dolore, alla vergogna. Come, cosa fare? Parlarne all’assistente sociale poteva significare farselo togliere. Far finta di niente poteva significare consegnare il figlio a un destino di uomo violento. Forse uno schiaffo era nulla o tutto. Il segnale di un dramma possibile o semplicemente una carezza più forte, una richiesta d’attenzione, un grido d’aiuto?
Chiamò Consuelo. Ma non ebbe il coraggio di parlargliene. Domani ci sarebbe stato Consiglio di classe. Meglio parlarne di persona … o non parlarne affatto.
Quella sera non scesero a cena. Evelina rimase in camera, nel piccolo appartamento messole a disposizione nella casa famiglia. Quando Assunta, la direttrice, salì a vedere cosa fosse successo, Evelina disse di avere un forte mal di testa e le chiese se poteva assicurarsi che i suoi figli mangiassero regolarmente la cena. Doveva dormire un po’, per lo meno assopirsi. Assunta comprese che qualcosa era accaduto. Che il marito l’avesse rintracciata? Che la minacciasse? Avrebbe voluto chiederle, ma sapeva per esperienza che doveva venire da lei la volontà di confidarsi, di affidarsi. La lasciò nella sua stanza, distesa sul letto con la faccia nascosta. Evelina aveva bisogno di aiuto. Nulla era finito per lei del calvario della violenza. Le sarebbe stata vicino fino a capire cosa era accaduto e a trovare insieme la soluzione giusta. Era il suo compito, comprendere, ascoltare, consigliare, dare gli strumenti. Sarebbe stato inutile forzarla. Intanto erano al sicuro nella casa famiglia. Le augurò di riposare e la salutò con una carezza.
Su consiglio di Consuelo e di Assunta, Evelina aveva accompagnato Robertino dalla psicologa.
Su consiglio di Consuelo e di Assunta, Evelina aveva accompagnato Robertino dalla psicologa. Dopo l'episodio dello schiaffo, non ve ne erano stati altri, ma Robertino si era chiuso in se stesso e i suoi momenti di rabbia li sfogava su giocattoli e suppellettili. Cominciata la scuola, qualche segno di aggressività non era mancato. Era necessario prevenire il peggio ed Evelina lo capiva bene. La psicologa cui si erano rivolte conosceva già la storia di Evelina, e non si era meravigliata certamente di quella visita. Robertino sembrò stare meglio, dopo le chiacchierate con la psicologa, ma Evelina aveva un pensiero fisso. Il gruppo dei bulli che avevano perseguitato Vanessa non erano stati individuati, almeno non tutti. Vigeva un clima di omertà tra loro e nomi non ne facevano. A modo loro, il peggiore, si sentivano eroi. Il tormento di Evelina era che tra quelli potesse esserci Robertino. Aveva affrontato l'argomento nella casa in cui vivevano. Da quando di Evo si erano perse del tutto le tracce, avevano lasciato la casa famiglia e vivevano in un piccolo appartamento non lontano. Ogni volta che prendeva il discorso di Vanessa, Robertino rimaneva del tutto indifferente. Non era un bel segno.
- Mamma, non scocciare. Non sono cose che mi riguardano...
- Non è così, la violenza riguarda tutti, in particolare con chi ne è stato vittima. Non credi?
- Storia vecchia. Quello l'hai costretto ad andarsene. Che vuoi di più?
- Dimmi la verità, per piacere. C'entra con la storia di Vanessa?
- Non c'entro, ma solo perché sono un vigliacco. Così mi hai voluto e così sono.
Quanto avrebbe ancora dovuto soffrire? Quanto ancora avrebbe dovuto subire? Ma era sua madre, doveva aiutarlo in ogni modo. Riportarlo dalla psicologa, era una vera lotta. Ogni volta la sua rabbia si sfogava a parole, insulti. Però poi ci andava, un po' trascinato, un po' perché in fondo era suo figlio, e forse voleva essere salvato. Evelina sopravviveva grazie a questa speranza, che condivideva con le sue figlie e con le amiche, sempre presenti alle sue richieste di aiuto.
Quanti anni erano trascorsi da quei giorni giorni duri da vivere? Robertino era cresciuto. Studiava per diventare medico. Lei continuava a lavorare, ma era vicina alla pensione. Pensava spesso a Vanessa. Aveva sentito dire che si era messa a scrivere. Pensò che in fondo anche il suo diario sarebbe stato giusto pubblicarlo. Ci avrebbe pensato.