Roxy, la giornalista
Roxy , la studentessa sessantottina che dal giornale studentesco approda ad un grande quotidiano milanese.
Pensieri sparsi - Capitolo II
Nelle fredde serate d’inverno, avvolta in un plaid dai toni caldi dell’autunno, Roxy ama lasciarsi trasportare dai ricordi. Sdraiata sul divano, ripensa alla sua infanzia, alla giovinezza colma di sogni e di aspettative, e si sorprende ancora a sognare ad occhi aperti. Per lei, la vita è narrazione, e ogni esistenza racchiude in sé mille storie.
Roxy ha tante storie da raccontare. Come quella della bimba che rifiutava con tutte le sue forze la scuola dell’infanzia gestita dalle suore, tanto da somatizzare l’ansia in un costante rifiuto del cibo. Una bimba punita severamente, costretta a restare in piedi dietro la tenda del refettorio finché la suora non le concedeva di tornare a posto. Fortunatamente, i suoi genitori colsero quel disagio e la ritirarono da scuola. Da quel momento, la piccola Roxy crebbe giocando nell’ufficio postale dove lavoravano i genitori, affascinata dai timbri e dal telegrafo.
Figlia delle Poste Italiane, cresciuta tra Montrano, Montecasto e Pescaia, divisa tra le radici materne e paterne, Roxy ricorda con nostalgia le domeniche passate tra parenti, le gite dai nonni e dagli zii. Una vita semplice, punteggiata di riti familiari e affetti intensi.
Ama passeggiare nel parco vicino casa, con un quaderno o un tablet tra le mani, per catturare i pensieri che affiorano nel dormiveglia. Si chiede spesso dove vadano quelli che non riesce a fissare su carta – un interrogativo che, forse, meriterebbe un intero libro.
Quel giorno, mentre è nel parco, incontra Consuelo.
«Ciao Consuelo, come va?»
«Tutto bene, ma mi sono svegliata un po’ ‘mbronciata stamane.»
«Allora ti racconto una storia che ti metterà di buonumore.»
Roxy, che di sé parla poco, le racconta del Natale del 1956, quando con il padre cercò invano dei cappelletti per il pranzo. Ne trovarono pochi, e il giorno dopo, mentre li portava a tavola, inciampò ballando sulle scale, rovesciandoli tutti.
«Addio cappelletti! E pure il piatto da portata!»
Consuelo scoppia a ridere.
«I tuoi genitori saranno impazziti!»
«Un po’, ma era Natale, e fui perdonata.»
Il padre di Roxy, Vincenzo, era un tipo originale. Negli anni Cinquanta possedeva una Fiat 1100 blu notte, diceva avesse corso la Mille Miglia. Guidava in modo spericolato, trasformando le strade deserte dell’epoca in piste immaginarie. Roxy e la cugina, rannicchiate dietro, tra paura e divertimento, imparavano a conoscere la velocità. A sedici anni Roxy era già una guidatrice provetta, anche se dovette attendere – con impazienza – la maggiore età per prendere la patente.
Ripensando all’adolescenza, riaffiora il ricordo di Domenico, il suo primo amore. Di recente si era rifatto vivo, grazie ai social.
«Sai che mi ha scritto su Facebook?» dice a Consuelo.
«Davvero? Intendi rivederlo?»
«Non lo so… parlarci mi fa bene. Ricordo i nostri incontri furtivi, mio padre sempre alle calcagna. Eravamo costretti a vederci al cimitero!»
«Al cimitero?!»
«Sì. Era un luogo che frequentavo spesso con mia nonna. Un giorno, in un vialetto, ci siamo baciati. Il mio primo bacio.»
Consuelo sorride, un po’ perplessa.
«Romantico, in un certo senso…»
Poi si alza: «Scusa, ho mille cose da fare oggi.»
Roxy resta pensierosa. Le piacerebbe parlarne con Livia, la maestra psicologa. Chissà cosa penserebbe di questo ritorno dal passato. Livia era sempre acuta, capace di alternare empatia e ironia. Roxy la ammirava.
Ripensa a Domenico: occhi chiari, un lieve strabismo di Venere che lo rendeva affascinante. Lei, minuta, castana, sognante. Si erano innamorati all’istante. Un amore adolescenziale, puro, ingenuo, ma intenso. Lui, più esperto, la baciava in modo indimenticabile. Quei ricordi, dolci e sospesi, le davano l’impressione di una storia mai davvero conclusa. Forse era per questo che si parlavano ancora. Forse per questo, il cuore batteva più forte ogni volta che lo rivedeva online.
Capitolo III
La vita e una scelta meditata l’avevano portata, negli anni Ottanta, a stabilirsi a Milano. Roxy amava profondamente la città. Amava la verticalità dei suoi grattacieli, l’armonia della Galleria, il fermento dei Navigli e la memoria delle case di ringhiera. Amava la Scala e i musei, Corso Como con i suoi atelier, e quel misto di frenesia e calore umano che si respira nei bar, nei viali alberati, nelle trattorie nascoste.
Milano era per lei una fusione perfetta di cultura, moda, storia e futuro. Una città che l’aveva accolta e trasformata, dove la sua voce giornalistica si era fatta più matura, più consapevole. Dopo le prime collaborazioni con riviste e testate, si era radicata come giornalista d’inchiesta al Corriere del Nord.
Il suo impegno nasceva da lontano. Negli anni del liceo classico, in pieno Sessantotto, aveva abbracciato le proteste, la voglia di cambiamento. Aveva cominciato a scrivere per il giornalino universitario, poi per testate vere. I suoi articoli, inizialmente infiammati di passione, avevano acquisito col tempo una profondità che la portò a raccontare con lucidità i temi più scomodi della società.
Quando pensava di aver ormai visto tutto, arrivò la telefonata di Andrea, direttrice del Corriere Centro. Aveva bisogno di lei: una studentessa, Vanessa, aveva tentato il suicidio a Melata. Serviva una penna attenta, un occhio empatico. Serviva Roxy.
Roxy prese un taxi per la stazione. Era marzo 2003. L’aria era ancora pungente, Milano era grigia e fredda. Preferì il treno. Il Frecciarossa la portò a Melata in serata. Zaino in spalla, piumino, minigonna tartan, stivaletti tortora, si avviò verso l’albergo. Dopo una doccia calda, chiamò Andrea. Si diedero appuntamento per cena in una trattoria vicino a Piazza delle Dodici Cannelle.
Roxy arrivò per prima. Un calice di rosso tra le mani. Andrea entrò, l’abbracciò.
«Come stai?»
«Bene. E tu?»
«Preoccupata. Vanessa ha cercato di togliersi la vita. Abbiamo bisogno che tu vada a fondo. Parla con la famiglia, con la scuola. Cerca la verità.»
Roxy annuì. Sapeva che doveva agire con tatto e determinazione.
Il giorno dopo andò in ospedale. Vanessa era fragile, muta, gli occhi persi nel vuoto. Il suo silenzio parlava più di mille parole. Roxy uscì sconvolta. Doveva fare qualcosa.
Parlò con il padre. L’uomo, distrutto, accennò a episodi di bullismo. Niente di provato, ma sufficiente a spiegare il malessere della figlia. Tuttavia, Roxy non era convinta. Era troppo semplice. E troppo vago.
In redazione, Andrea la esortò a scrivere. «Serve un pezzo forte sul bullismo.»
Ma Roxy esitava. Voleva capire davvero. Sentiva che dietro quel gesto disperato si nascondeva qualcosa di più complesso. E così, decise di andare più a fondo. Di nuovo.
Nei mondi virtuali dove si rifugiava nel tempo libero, curava mostre, incontrava avatar, esplorava l’immaginazione. Quel doppio livello tra realtà e finzione era parte della sua vita. E forse anche di quella di Vanessa.
Capitolo IV
La mattina seguente, dopo una notte agitata nella pensione albergo di Melata, Roxy si svegliò con un pensiero fisso: Vanessa. La stanza era immersa nel silenzio, ma dentro di lei la mente correva veloce. Aveva bisogno di capire, di scavare più a fondo. Il giorno precedente aveva ascoltato il padre della ragazza, ma le sue parole non le erano sembrate sufficienti. Serviva altro. Una conferma, un dettaglio, un indizio.
La prima mossa fu cercare la madre. Roxy si presentò alla porta con tono pacato e rispettoso, ma venne accolta con ostilità. La donna, visibilmente scossa, rifiutò di parlarle. "Lasciateci in pace", disse, chiudendo lentamente la porta. Roxy comprese che dietro quel rifiuto si nascondeva una paura profonda, forse anche un senso di colpa.
Non si perse d’animo. Telefonò ad Andrea per aggiornamenti. Si accordarono per incontrare la dirigente del liceo artistico frequentato da Vanessa. L'incontro si svolse in un ufficio sobrio ma ordinato. La dirigente, visibilmente provata, parlò di un cambiamento nel rendimento scolastico della ragazza, di qualche episodio di tensione con i compagni, ma nulla che facesse presagire una crisi tanto grave. "Nessun allarme concreto", disse, "solo un'inquietudine crescente che ci era sfuggita."
Fu il colloquio con la psicologa della scuola a gettare nuova luce. La donna era professionale, ma il suo sguardo rivelava empatia. Confermò che Vanessa aveva mostrato segnali di disagio, ma spiegò che ogni tentativo di approfondimento si era scontrato con un muro di silenzi e risposte evasive. "È come se vivesse in un altro mondo", disse la psicologa. Una frase che colpì profondamente Roxy.
Nel pomeriggio, dopo molte esitazioni, riuscì a fissare un nuovo incontro con Vanessa. La trovò in una piccola stanza dell'ospedale, seduta vicino alla finestra. Lo sguardo perso oltre i vetri.
«Ciao, Vanessa. Posso sedermi?»
Un cenno lieve del capo. Roxy si accomodò e restò in silenzio per qualche minuto, lasciando che il tempo colmasse la distanza.
Poi, con calma, le parlò. Non da giornalista, ma da donna. Da essere umano. Vanessa cominciò a tremare. Si sfregava le mani in modo compulsivo. Quando Roxy le chiese se ci fosse stato qualcuno – o qualcosa – a spaventarla, la ragazza sussurrò una parola: "fantasma".
Il racconto che seguì fu surreale. Vanessa descrisse un essere venuto dal futuro, metà uomo e metà macchina, che le aveva mostrato visioni terribili del destino del pianeta. L’incontro, avvenuto più volte, si sarebbe svolto in una piazza nascosta di Melata che appariva e scompariva.
Roxy ascoltò senza interrompere. Non rise, non giudicò. Sapeva che nella sofferenza si nascondano verità simboliche più potenti della realtà. Terminato il racconto, le chiese se avesse mai provato a parlarne con qualcuno. Vanessa annuì: "La psicologa. Ma non mi ha creduta. Ha pensato fossi pazza."
Con l’aiuto di uno psicologo esterno, Roxy preparò un nuovo incontro. In quell’occasione, Vanessa riuscì a separare fantasia e realtà. Il trauma, il bullismo, l’isolamento: erano questi i veri nemici. Il racconto alieno era stato solo un rifugio, un’illusione protettiva.
Vanessa scoppiò in un pianto liberatorio. Finalmente poteva dire la verità. Il peso che aveva portato da sola cominciava ad alleggerirsi.
Roxy, commossa, decise di agire su due fronti: un articolo per il Corriere Centro, denuncia coraggiosa contro il bullismo scolastico; e un racconto per la rivista di fantascienza con cui collaborava, trasformando l’esperienza di Vanessa in una favola di rinascita.
Prima però, doveva tentare l’impossibile: cercare quel portale descritto da Vanessa. Voleva vedere con i propri occhi quel luogo sospeso tra i mondi, tra verità e immaginazione. Doveva capire se la ragazza avesse solo immaginato... o intuito qualcosa che sfuggiva alla logica.
Capitolo V
Roxy sapeva di non poter più rimandare. Il momento di raccontare la verità era arrivato. Il caso di Vanessa meritava di essere conosciuto. Aveva tra le mani una storia dolorosa, ma anche potente: un grido d’aiuto trasformato in visione. Un’esperienza intima che si era spinta ai confini della realtà per sopravvivere al dolore.
E così iniziò a scrivere il suo articolo per il Corriere Centro:
Bullismo: la storia di Vanessa, la ragazza che si rifugiò in un mondo fantastico
di Roxy
Vanessa ha vissuto l’umiliazione del bullismo sulla propria pelle. I suoi compagni di scuola l’hanno isolata, ferita, ignorata. Le ferite lasciate da quelle violenze invisibili hanno scavato in lei un abisso. Per sopravvivere, Vanessa ha inventato una realtà alternativa. Una storia straordinaria, in cui un essere venuto dal futuro le affidava una missione: salvare il pianeta Terra da una catastrofe.
Quando l’ho incontrata, il suo sguardo era vuoto, ma le sue parole – quelle che è riuscita a pronunciare – erano cariche di significato. Insieme a uno psicologo esperto, abbiamo aiutato Vanessa a dare un nome al suo dolore. Le sue "visioni" non erano follia. Erano metafore. Erano il modo in cui il suo cuore, ferito, cercava un senso.
Questa vicenda ci ricorda che il bullismo non è un gioco. È una violenza. Una violenza che può spingere i più fragili verso l’abisso. Dobbiamo parlarne, dobbiamo ascoltare. E dobbiamo agire.
Roxy chiuse il portatile, ma il pensiero di Vanessa non si spegneva. Il racconto di quella ragazza la inseguiva. E non solo come simbolo del dolore. C’era qualcosa di più. Qualcosa che parlava alla sua parte più immaginativa, quella nutrita per anni da Asimov, Dick, Le Guin.
Fu allora che decise di scrivere anche un secondo pezzo, destinato alla rivista di fantascienza con cui collaborava da anni:
Esplorando le Vie del Futuro – Il Portale delle Sette Fate di Roxy
In un piccolo borgo chiamato Melata, esiste una piazza che compare solo quando la si cerca davvero. È lì che si apre il Portale delle Sette Fate. Un varco tra mondi. Un ponte tra tempi.
Quando Roxy attraversa il portale insieme alle sue tre amiche – Eva, Livia e Vanessa – si ritrova proiettata nel 3050. Un mondo sconosciuto, senza sole, senza vento. Ma con una città luminosa, racchiusa in una bolla di vetro. Una città creata per resistere alla morte di un pianeta.
Il portale è reale. Forse non nei modi che ci si aspetta. Ma reale lo è, perché è il simbolo della nostra capacità di immaginare un futuro diverso. Migliore.
Il giorno dopo, armata di determinazione e di una buona dose di follia poetica, Roxy tornò a cercare la piazza descritta da Vanessa. Non era sola. Eva e Livia si unirono a lei. E, inaspettatamente, anche Vanessa.
La cittadina di Melata sembrava la stessa di sempre. Ma le quattro donne sapevano che stava per cambiare. Camminarono, si divisero, si ritrovarono. E infine, in un intreccio di vie secondarie, scoprirono la Piazza delle Sette Fate.
Una piazza immensa, geometrica, silenziosa. Al centro, un monolite iridescente. Vibrazioni nell’aria. Una melodia mai sentita.
Il monolite si animò. Un vento improvviso le travolse. Le quattro amiche si strinsero l’una all’altra… e il mondo si capovolse.
Quando riaprirono gli occhi, si ritrovarono distese su un terreno scuro, gelido. Attorno a loro, un paesaggio senza luce. Un cielo privo di stelle. Ma davanti, una città chiusa in una cupola di vetro brillava. Erano arrivate. Il futuro le aveva accolte.
Videro un veicolo avanzare verso di loro, silenzioso, metallico. Furono accompagnate dentro la città. Una guida silenziosa le condusse in un appartamento lussuoso, circondato da piante profumate, siepi di alloro, alberi di tiglio e fontanelle separate per acqua potabile e non potabile. Una visione di ciò che la Terra avrebbe potuto essere, se avesse imparato dai suoi errori.
In quel silenzio sospeso, tutto era possibile. Roxy prese il suo taccuino e cominciò a scrivere. Sapeva che quel viaggio non era solo un sogno. Era un messaggio.
E il meglio… doveva ancora venire.
Capitolo VI
Le quattro amiche si guardarono intorno, ancora scosse dall’attraversamento del portale. La città sotto la cupola era luminosa, ordinata, eppure stranamente silenziosa. C’era qualcosa di irreale in quel luogo. I grattacieli dalle forme curve sembravano sospesi, le strade prive di traffico, l’aria carica di un profumo mai sentito.
«Siamo... davvero nel futuro?» sussurrò Livia.
Vanessa, silenziosa fino a quel momento, annuì lentamente. «È questo. Il posto che ho visto.»
Una figura si avvicinò. Era una donna, vestita con una tuta dai riflessi cangianti. Si presentò come Lila, direttrice dell’Istituto di Ricerca dell’universo di Nera.
«Benvenute. Abbiamo seguito il vostro arrivo. Sapevamo che prima o poi qualcuno sarebbe giunto dal portale.»
Lila spiegò che loro abitavano il pianeta Nera, un rifugio creato dopo la distruzione di Tera, il pianeta natale, a causa di una guerra nucleare che aveva devastato l’atmosfera e reso impossibile la vita. L’umanità sopravvissuta si era rifugiata in queste città artificiali, isolate in bolle di vetro.
Roxy ascoltava affascinata, annotando freneticamente tutto nel suo taccuino. Ogni parola di Lila sembrava un tassello che si univa al racconto incredibile di Vanessa.
«Il mio sogno – disse Lila – è trovare una fonte di energia pulita e permanente per rigenerare Tera e tornare a casa.»
Fu in quel momento che Roxy si ricordò della pietra solare che portava con sé: un oggetto antico, trovato per caso nel corso di una mostra virtuale, che emanava una luce calda e pulsante. La tirò fuori dallo zaino e la porse a Lila.
La scienziata rimase senza parole.
«Questa pietra... ha le proprietà che cerchiamo da anni. È una fonte energetica in grado di alimentare interi ecosistemi.»
Lila lavorò giorno e notte insieme al suo team. Dopo alcuni giorni, annunciò che il progetto era pronto: tre raggi sarebbero stati generati dalla pietra. Il primo per rigenerare Tera, il secondo per creare un portale stabile con la Terra, il terzo per collegare Nera al proprio pianeta d’origine.
Sul tetto della cupola, le quattro donne assistettero al momento storico. Il primo raggio illuminò il cielo, puntando verso Tera. Una nebbia tossica si dissolse, lasciando spazio a cieli azzurri e vegetazione che tornava a vivere. Il secondo raggio aprì un portale tra i mondi: dalla Terra, si intravedevano volti stupiti, occhi spalancati verso un futuro possibile. Il terzo raggio creò un varco tra Nera e Tera: il ritorno a casa era realtà.
Roxy sentì le lacrime salirle agli occhi. Aveva raccontato storie per tutta la vita, ma questa le superava tutte.
Un gesto di empatia, nato da una ragazza ferita, aveva cambiato il destino di due pianeti.
Di ritorno nel loro appartamento, Roxy scrisse fino a tarda notte. Era il suo ultimo reportage, ma anche il più importante. Intitolò l’articolo: “Quando il dolore genera futuro”.
Prima di lasciare Nera, chiese un ultimo favore a Lila: «Aiuta anche la mia Terra. Abbiamo ancora tempo per salvarla.»
Lila sorrise. «La rinascita è cominciata.»